“Fratelli gay, sorelle lesbiche, dovete fare coming out. Fatelo con i vostri genitori […] Fate coming out con i vostri parenti. Fatelo con gli amici, se sono davvero tali. Fate coming out con i vicini, con i colleghi di lavoro e con le persone che lavorano nei luoghi in cui mangiate o in cui fate la spesa. Fate coming out […] una volta per tutte, distruggete i miti da sfatare. Distruggete le menzogne e i pregiudizi. Per il vostro bene e per il loro”.
Furono queste le parole pronunciate negli anni ’70 da Harvey Milk, primo politico statunitense apertamente gay.
Eppure “uscire allo scoperto”, rivelarsi in merito della propria identità sessuale, camminare fuori casa senza la vergogna o la paura per il proprio orientamento sessuale, risulta essere ancora un passo quasi inimmaginabile per un cospicuo numero di persone omosessuali. Per molti di questi, risulta invalicabile addirittura il tratto di strada precedente, quello tra la propria omosessualità e il proprio Io.
A cosa è dovuto tutto questo? Perché si sviluppa questa tendenza al disdegno di se stessi?
Tra le diverse dimensioni dell’omofobia, una in particolare grava sulla persona omosessuale, al punto tale da costituire uno stressor al quale la persona è ininterrottamente sottoposta. Sto facendo riferimento al costrutto di omofobia interiorizzata, un corollario dell’omofobia che ha a che fare con la concezione che l’individuo omosessuale stesso ha di sè, costituita da una percezione negativa di se stesso e dell’omosessualità in generale. In tali condizioni la persona può arrivare a provare disgusto ed avversione nei suoi stessi confronti.
L’origine di questa condizione risiede nell’eterossessismo (Herek, 1996) di cui la società si è “ammalata”, malattia il cui sintomo principale si manifesta nello stigmatizzare la persona omosessuale come sbagliata, diversa dalla maggioranza e quindi da rifiutare.
Per dirla con “sarcasmo psicodinamico”, una società che proietta la Sua malattia sull’individuo omosessuale, colui che rappresenta la minoranza!!
La malattia però, purtroppo, negli anni sembra aver preso la piega di un’epidemia i cui germi si sono insidiati nella società, contagiando una, ahimè, cospicua porzione della popolazione. Tra i più radicati e nocivi di questi germi vi è senza dubbio lo stigma sessuale, ovvero la condivisione, da parte degli individui colpiti dall’epidemia, del pregiudizio nei confronti di chi è diverso da loro per quanto concerne le scelte sessuali.
E’ chiaro che l’aspettativa di essere rifiutato, per persona omosessuale, nel momento in cui si permette anche solo di pensare ad un ipotetica rivelazione, ha livelli troppo alti da tollerare. Reali oltremodo sono le esperienze oggettive di discriminazione che la persona omosessuale, o presunta tale, si trova a vivere, quasi quotidianamente. Gli insulti omofobi sembrano attendere queste persone dietro l’angolo, nelle scuole o nei bar.
Mi sembra di immediata comprensione la difficoltà con la quale queste persone sono costrette a lottare, il peso che sono chiamate a sorreggere.
Mayer (2003) descrive questa dimensione costretta della persona omosessuale come Minority Stress, delineando i tre stressor che la costituiscono e che sono appunto: l’omofobia interiorizzata, la percezione soggettiva dello stigma (l’aspettativa delle reazioni omofobe in risposta alla sua rivelazione) e le situazioni oggettive di stigmatizzazione.
Lo stress a cui la persona omosessuale è sottoposta ha quindi un polo più soggettivo, rappresentato dall’omofobia interiorizzata e uno più oggettivo designato dalle situazioni stigmatizzanti oggettive subite.
Il minority stress ha conseguenze importanti sulla qualità della vita, in particolare in adolescenza si ripercuote negativamente sullo sviluppo psicologico e affettivo, sul piano relazionale e sull’intero processo di costruzione della personalità.
Date queste evidenze e il continumm dimensionale del minority stess, appare evidente la ripercussione delle difficoltà e del dolore che questo determina sia sul piano personale sia su quello interpersonale.
Fatica che si riflette quindi nella relazione con se stesso e con l’altro, quest’ultimo rappresentato dal collega di lavoro, dal compagno di scuola o, nel più disagevole dei casi, dai familiari.
E’ sulla base di questa conclusione che nasce la parola HoME che ha dato il nome a questo progetto, reso possibile dall’incontro di persone impiegate nella “lotta contro l’epidemia”.
La scomposizione di questa parola porta Ho Me, avere se stesso, inteso come il relazionarsi con il proprio Io; la traduzione invece porta a Casa, il luogo in cui ogni persona dovrebbe godere del riconoscimento sincero dei propri familiari, il luogo in cui non si dovrebbe mai aver paura di “spogliarsi”, dove chiunque dovrebbe poter stare comodo, le cui pareti dovrebbero proteggere da qualsiasi stressor.
Casa è lo spazio che dovrebbe favorire l’espressione di se stessi.
Credo che HoME, così inteso, scomposto e ricomposto, sia un diritto che si può co-costruire, non è mai tardi.
“Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente.” Rainer Maria Rilke